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LA ROCCIA DI SISIFO

Atto unico in due scene

Di Alfred de Grazia


© 2001 di Alfred de Grazia


Antica Grecia. La pièce consiste di fatto del monologo di Sisifo, figlio di Eolo e avo di Ulisse. Attorno alla scena si percepisce una folla, a volte crescente, a volte calante, il cui suono però è sempre al di sotto di quello dell’azione. Zeus fa una breve apparizione alla fine della pièce; così come un’apparizione ancor più fugace fa suo fratello Ades, che domina le tenebre sotterranee. E’ presente un grosso macigno frastagliato (non tondo) di circa 2 metri di diametro, fatto di cartapesta dalle striature variopinte, che Sisifo fa rotolare su per un sottile pendio a gradoni irregolari (il cui inizio, celato alla vista, è al lato posteriore sinistro del palcoscenico, mentre la cima si trova sulla parte anteriore destra del palcoscenico, torreggiando sul pubblico).

Il macigno rotola in basso all’inizio della pièce, poi viene sospinto verso l’alto per poi ricadere ancora una (sola) volta verso il basso.

Sisifo indossa dei calzoncini non attillati da lavoro, quasi dei sospensori, è a petto, gambe e piedi nudi. Spinge il macigno verso l’alto, con fatica, quasi pesasse una tonnellata. Quando rotola di nuovo verso il basso, così come decretato dagli dei, rotola giù per i gradoni del pendio concavo (ancorato in modo non rigido ad una scanalatura). Ogniqualvolta Sisifo vuole fare una pausa durante l’ascesa, il macigno può essere tenuto fermo con una mano, col deretano, la gamba, lo stomaco. Egli parla durante le pause. Ci ricorda che non può evitare la ricaduta del macigno una volta raggiunto il culmine, per quanto egli possa sforzarsi. Ogni volta deve rinunciare a sforzarsi oltre e lasciare ricadere il macigno.


La pièce inizia con un urlo forte in alto a destra e fuori scena.


SCENA  PRIMA


Sisifo: "Alt!" "Fermo! Resta lì! Non ti muovere,

stolida roccia di quel fottuto cuore di pietra di Zeus!"

Ma il macigno entra nel campo visivo e rotola rumorosamente giù per il piano inclinato, percorrendolo tutto da in alto a destra e fermandosi giù a sinistra. Un’insegna luminosa rossa appesa in alto a sinistra rispetto al centro della scena lampeggia tre volte per poi passare da 37.202 a "37.203 salite".

 

Silenzio! Sisifo appare in alto a destra sul pendio. Scende lungo la rampa a fatica, fermandosi più volte, giungendo fino al punto dove si è fermato il macigno. Alla prima sosta, si volta per rivolgersi al cielo. Nell’angolo in alto a destra luccica un gruppo di sette stelline, che si spengono man mano la pièce procede. La settima stella brilla più delle altre.

Sisifo: Ah, Merope, Merope, esci, ch’è notte.

E’ il tuo sposo, l’amante, il tuo divino eroe, nemico degli dei,

a nessun altro riesce, di veder la più bella

di tutte le isole, di Grecia e della notte.

Ascosa tra milioni unica stella

ti scorgo e mi rimiri,

soli insieme, amanti non veduti, 

sposi immortali e di malvagi prede

poteri irraggiungibili d’un cosmo

sì follemente ordito contro il bene.

Tutti vedon le sei sorelle tue, benché sol io ti veda,

giacché gli dei con me tu pur sfidasti

sposando un uom non degno agli occhi lor

d’Atlante divo e padre, or ti si vieta

tra Pleiadi sorelle di lucor corporeo far mostra.

Scende alcuni gradini. Si odono rumori distanti dalle parti basse del palcoscenico, rumori di gente che si affolla e parla in modo incomprensibile, tranne che per parole come dei, Sisifo, stelle, fatica, delitto, punizione, eterna.

Sisifo: Ma perché me ne sto qui a sfacchinare, su e giù,

come la più misera delle bestie da soma, o

persino come il pecoraio che deve alzarsi all’alba, per

spremere le mammelle delle sue bestie per poche gocce di latte,

portando cacca, piscio e fieno qua e là,

contentandosi di un po’ d’uva, sgranocchiando una crosta di pane,

ingollando una ghiotta zuppa densa

per poi buttarsi sullo stuoino fino all’alba successiva, e così via per sempre,

tranne che nel suo caso, beato lui, prima o poi morirà.

E così finora ho salito e ridisceso la montagna

37.203 volte, una cifra che il caso vuole pari

al numero medio di andirivieni che l’inserviente d’un magazzino

a Corinto (dovrei saperlo visto che ci ho fatto il re

per un po’) e un pecoraio d’Attica

(e Atene ne ha avuti di buoni statisti che venivano dalle sue greggi di astrologi)

compiono nella loro vita.

Sono qui perché (e dico perché senza

riferirmi ad alcuna buona ragione o causa 

ma solo perché perché è la parola magica per far finta che

uno comprende il mondo) Perché, mammina? Perché sì!

Ho preso in giro gli dei.

Ho denigrato il dio numero uno, Zeus, chiamandolo un fatuo donnaiolo,

dimentico della gente del mondo, anzi procuratore di guai su guai.

Ho lodato gli uomini, come esseri superiori agli dei,

sono stato un buon re, attento ai miei doveri,

anche se, ebbene sì, arrogante, ma non contro gli esseri umani,

bensì contro gli dei,

e così facendo ho dimostrato di essere uno stupido oltre ogni dire.

Contro di loro non abbiamo forze.

Gli baciamo i piedi. Tutto ciò che ci riesce di conseguire -

Le nostre arti, le scienze, i nostri edifici, le nostre fattorie -

Lo ascriviamo umilmente a loro,

Per paura compiamo sacrifici, e nessun sacrificio ci costa troppo,

ma proferire queste mie parole diventa un sacrilegio,

blasfemia, ecco i miei delitti. Eppure,

se lasciassero inumidirsi le mie labbra secche,

gli sputerei addosso.

E perché questa punizione? Perché non darmi in pasto a belve selvagge,

o farmi trascinare da cavalli imbizzarriti, o crocifiggermi, scorticarmi, smembrarmi?

La logica di quel sempliciotto di Zeus è cristallina:

'La punizione di Sisifo deve essere eterna,

fino a che ci saranno dei come noi,

altrimenti quelli come lui ci sopravvivrebbero,

scodellando mocciosi frignanti a non finire.

'La sua punizione deve essere visibile a tutti,

su di una montagna che poggi sull’Inferno e sia visibile dal Cielo.

La sua punizione deve consistere di lavori forzati,

per ricordare a tutti gli uomini che razza di miserabili schiavi essi siano.

'La sua punizione deve colpire a fondo alla minima apparizione di speranza,

di modo che ogniqualvolta si avvicinino il traguardo, il compimento,

il successo o il culmine,

la speranza che li accompagna venga condannata e frustrata.

Sisifo: Non m’han dato neppure un attrezzo per aiutarmi nel mio lavoro – né un cuneo, né una leva, no drum to lurch by, nemmeno un sospensorio: guardate (si tira giù i calzoncini per far vedere i suoi genitali)

Le luci si spengono, abbastanza lentamente per permettere a Sisifo di arrampicarsi per un terzo del pendio.



SCENA SECONDA


Il mattino del giorno dopo

Sisifo si trova già ad un terzo del pendio.

La folla lo sprona. Lui si ferma.

La folla volubile ora lo schernisce.

Ma durante la sua lunga sosta, come la testa gli cade in avanti,

la folla si quieta. Poi solleva la testa e urla

Eureka!

Si appoggia al macigno, tenendolo in posizione più o meno stabile, anche se traballante, e si rivolge, di tre quarti, al pubblico.

Ho risolto il problema. E’ un calcolo a più variabili.

(Il macigno traballa e lui è costretto a ripetersi.)

Vi spiego tutto, anche se non siete altro che la spregevole plebaglia capelluta del Tartaro.

Inizio da questo macigno stesso.

(Descrive, usando le mani e qualsiasi parte del corpo e della faccia non costretta a tenere fermo il macigno, i punti del macigno dei quali parla.)

Questo macigno ha 13 assi o angoli maggiori e 6 minori, la sua densità è distribuita dal centro verso l’esterno per multipli di 4, facendone la media della distanza dalle estremità e della densità di tutti gli angoli protrusi.

Inoltre so, dato il diagramma, l’assiogramma di tutto il macigno, quale punto di esso è meno incline a lasciarlo rotolare giù da un punto fermo, una volta che questo sia stato raggiunto, come in cima alla montagna, per esempio.

Poi ho iniziato a misurare la montagna mentre salivo e scendevo: ci sono 2014 gradini su questo pendio diretto del monte Tartaro. I gradini o lastre misurano in media 14 pollici di altezza. Le lastre hanno un angolo d’inclinazione medio (o di declinazione, a seconda che si vada su o giù), di 23 gradi, che Poligamo ha di recente dimostrato essere l’inclinazione della Terra rispetto al piano dell’eclittica. Ma sarebbe troppo lungo spiegare questa nuova scoperta.

Ora calcolo la mia forza di eroe. E’ il  34% della forza di eroe standard di Ercole, e corrisponde a 11/17 di un cavallo/vapore. La moltiplico per il tempo che ci vuole per salire e scendere dalla montagna.

E così ottengo i dati richiesti per il calcolo!

"Il calcolo di che?" mi chiederete.

Un gigantesco “Sì!” giunge dalla moltitudine che ha ascoltato affascinata e respirando a fondo mentre lui parlava di cifre)

Sisifo: E’ – quello che ho in mente – il calcolo di come mettere sto maledetto macigno in cima alla montagna in modo che gli sia impossibile rotolare giù.

E, genio qual sono, ho calcolato, usando gli stessi dati, un secondo punto tra le rocce, un punto di emergenza, che è il secondo punto più elevato dopo la cima del monte e vicino ad essa e dove la roccia si fermerà se per un qualche motivo non starà ferma in cima come da primo calcolo. Non credo nemmeno che ne avrò bisogno, di questo punto di riserva.

Sostiene il macigno con la testa e fa una danza strascicando i piedi al suono del tamburo vivace che è improvvisamente apparso mandato dal cielo.

Sisifo: Ho trovato il punto! E’

x (ab)/ay-54545-3y/14 x + 10e = P

Lo ripete. Lo canta. L’attore può scegliere un motivo a piacere.

x per a e b,

su a e c

meno 5 4 5 4 5

meno 3 volte y diviso

14 elevato a x

più 10 per e

uguale

al valore del punto P.

Si sta avvicinando alla cima.

E quando giungerò in cima, il macigno

si rifiuterà di rotolar giù di sua sponte.

Nemmeno un dio, nessun dio, né Zeus 

con tutto il suo armamentario può riuscirci con tutta la forza di volontà.

Perché sì. Perché sì.

Perché nemmeno tutti gli dei insieme possono infrangere la volontà

della matematica degli eventi naturali.

Il punto, una volta noto, è inespugnabile.

C’è un solo modo per far cadere il macigno.

Basta che gli dia una bella spinta e precipiterà dritto dritto dal lato opposto fino ad arrivare proprio in mezzo alla tavola imbandita degli dei, sissignori, proprio così, un bel colpo sulla storica,

arcinota tavola degli dei,

con  CHI SAI TU seduto proprio a capotavola!

Sisifo è giunto in cima al monte.

Sta aggiustando la roccia in posizione,

per far cessare il suo movimento verso il basso. Così facendo,

urla "P"e per la prima volta dall’inizio della pièce

la roccia se ne sta ferma.

Che faccio, libero tutti noi dal male ora? Urla

alla folla invisibile sotto,

che gli risponde SI’.

Do a questi indegni pretendenti

al trono dell’universo quel che si meritano?

Folla: SI’

Sisifo sta fermo in piedi. Poi urla, NO!

E si sente un enorme mugugno dalla folla.

Perché, perché, perché

Distruggere questi dei recherebbe catastrofi al mondo,

il mondo vostro e mio. Sono forze della natura,

stupide, cieche, pretenziose ed intriganti per egoismo.

Come godono a portare rovina al mondo!

Il mondo sarebbe andrebbe in rovina se distruggessimo  gli dei, poiché essi sono una cosa sola con le catastrofi. Emergono da esse e vi si fondono quando se ne vanno. Mia moglie, Merope, mi sostiene in ciò che dico, poiché sia lei che le sue sorelle hanno potuto osservare da vicino la fonte celeste del diluvio universale mandato da Cronos e che quasi sterminò l’umanità.

Conosco la formula.

Voi conoscete la formula.

Gli dei sanno che conosciamo la formula del

punto del macigno sul monte del destino.

Dobbiamo vivere con tale consapevolezza, e lavorare con essa. E’ l’unica felicità per noi.

E quindi mi accingo a far rotolare la roccia giù per la montagna, laddove ho cominciato questo giorno sospingendola fin quassù,

e la spingerò per sempre fin quassù per poi ri-spingerla verso il basso,

anche se so come tenerla ferma,

o farla rotolare in testa agli dei.

E i vostri figli e i figli dei vostri figli mi guarderanno mentre lo faccio.

Questo è il mio libero arbitrio, non il mio destino, il vostro libero arbitrio, non il vostro destino.

Faticare senza sosta, in eterno,

sapendo che il mondo intero potrebbe essere cambiato

dalla conoscenza in nostro possesso.

Dall’intelligenza e saggezza di cui disponiamo.

Siamo saggi, ma ci rifiutiamo di usare la nostra saggezza

contro l’ordine naturale delle cose.

Dopo di che, da un colpetto al macigno che prende a ridiscendere la montagna, con Sisifo che lo rincorre con orgoglio.

Una volta giunto al fondo, chi è li ad attendere la roccia e l’uomo appena scesi? Proprio lui, sì, ZEUS. Un gigantesco Zeus vestito grottescamente si affretta sulla scena con un grande calice di nettare in una mano e spintonando il suo sonnacchioso fratello Ades con il fulmine frastagliato che tiene nell’altra mano; grida: Fermi, fermi, la commedia è finita! Io, Zeus, re degli dei, lo impongo. Che siano tutti affogati in un diluvio di Lete. Affogateli tutti in acque letali.

La folla rumoreggia in modo spaventoso.Si levano urli angosciati e inquietanti. Zeus teme di fatto l’idea di perdere il controllo sull’umanità.

Zeus: Che la roccia non torni più su! Altrimenti ogniqualvolta giungerà in cima noi dei temeremo che Sisifo decida una volta per tutte di mandarcela addosso.

(Si ferma per riflettere)

No, no, fermi, ché senza roccia, la gente rinuncerà alle proprie fatiche e vivrà come dei.

Torneremmo all’età d’oro di Cronos, mio padre da me ucciso.

La roccia deve continuare a salire e scendere, salire e scendere.

Accennando a Sisifo, dice, "Fatelo bere, soprattutto lui, Sisifo, fatelo bere! Bere! Dimenticherà per sempre e quindi s’arrampicherà e scenderà istupidito, come un robot.

Poi, si rende conto di quello che sta facendo e cambia idea ancora una volta.

No, no, dobbiamo fare in altro modo. Ades, stupido fratello mio, annegali tutti nelle acque dell’oblio, nel Lete, così che dimentichino i nostri delitti.

Ma non dar da bere nulla a Sisifo.

Non potrebbe gustarsi la punizione se dimentica.

Deve ricordarsi di odiare me e tutti i mascalzoni della mia famiglia.

Gli dei si nutrono delle paure della folla.

Ma gli dei vivono felicemente anche dell’odio degli uomini intelligenti.

Se ci dimenticano, ci uccidono.

Dobbiamo evitare che lo facciano.

Leva il suo calice per bere un po’ di nettare ed esce di scena barcollando, cantando voluttuosamente e da ubriaco,

"Trincare, fratelli, trincare,

che il povero Sisifo deve pensare.."

Trincare, fratelli, trincare, .....



SIPARIO


FINIS


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